Marco Boato - attività politica e istituzionale | ||||||||||||||||
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Trento, 31 gennaio 2014 Non c’è dubbio che sia un fatto assai positivo, finalmente, il rapido avvio del processo legislativo per la riforma della legge elettorale, dopo la nota sentenza della Corte costituzionale e dopo la nomina di Matteo Renzi a nuovo segretario del Partito democratico. Ma è difficile immaginare che il progetto adottato come «testo base» non possa e non debba essere valutato a fondo e corretto in alcuni suoi aspetti essenziali nel corso del procedimento parlamentare, senza cedere alla logica del «prendere o lasciare» o del «fare in fretta, comunque sia». È necessario infatti porsi alcuni interrogativi, che vanno anche al di là delle posizioni delle stesse forze politiche attualmente rappresentate nelle due Camere, tra le quali comunque sono già emerse alcune significative riserve critiche, come del resto anche da parte di numerosi commentatori competenti in materia elettorale e costituzionale. Segnalo in proposito un recente documento di alcuni autorevoli giuristi e costituzionalisti, reso noto in questi giorni e ripreso da vari organi di informazione. Una buona legge elettorale deve saper contemperare due fondamentali esigenze del sistema politico-istituzionale: governabilità e rappresentatività. Ciascuna di queste non può essere eccessivamente dilatata a scapito dell’altra. Chi sarà chiamato a governare, sulla base dei risultati elettorali, non dovrà essere espressione di una minoranza dei cittadini, tramutati in artificiale maggioranza solo sulla base dei meccanismi premiali. Chi sarà presente in Parlamento – maggioranza e opposizioni – dovrà essere nel suo insieme espressione della larga maggioranza dei cittadini, senza artificiose esclusioni eccessivamente «semplificatrici». Nella mia lunga vita politica, mi è accaduto di essere eletto con tutti i diversi meccanismi elettorali: il «proporzionale», con le preferenze, alla Camera e il collegio uninominale proporzionale al Senato, con la legge in vigore nella Prima repubblica dal dopoguerra fino al 1992; il collegio uninominale maggioritario della legge Mattarella (alla cui elaborazione ho contribuito, nella Commissione affari costituzionali della Camera, dopo il referendum del 1993); la circoscrizione con lista bloccata, nel 2006, dopo l’entrata in vigore della legge Calderoli (la cui approvazione avevo cercato in ogni modo di ostacolare nel 2005). Non ho dubbi nel dire che l’esperienza più positiva l’ho vissuta (ai tempi dell’Ulivo) con l’elezione in un collegio uninominale maggioritario, che garantiva un rapporto diretto e immediato con i cittadini elettori e la prevalenza di una logica di coalizione rispetto alle singole identità di partito. Ed è per questo che, dopo l’entrata in vigore del «Porcellum», avevo subito presentato, ma invano, una proposta di legge per ripristinare il «Mattarellum» e successivamente avevo sostenuto la proposta di referendum nella stessa direzione, purtroppo allora dichiarata «inammissibile» dalla Corte costituzionale (con una decisione che mi lasciò molto perplesso). Sono passati così otto anni inutilmente e, nel frattempo, il panorama politico è profondamente cambiato, passando da una dinamica «bipolare» ad una «tripolare», con l’arrivo in massa del M5S di Grillo. In questi ultimi anni – in forza del «Porcellum», ma non solo – sono scomparse dal Parlamento numerose forze politiche, sicuramente minori in termini di consenso, ma comunque espressione di realtà sociali e culturali presenti nel Paese: dai radicali ai verdi, da forze della sinistra ad altre del centro e della destra. La domanda da porsi a questo riguardo, anche per il futuro, è questa: siamo sicuri davvero che la drastica semplificazione della rappresentanza politica sia sempre e comunque un fatto positivo per l’Italia? E simile domanda andrebbe posta ancor più per le elezioni europee, dove analoga esclusione si è verificata nel 2009, grazie alla improvvisa introduzione – con un accordo Berlusconi-Veltroni dell’ultima ora – di una prima inesistente clausola di sbarramento del 4%, neppure giustificata da una presunta «governabilità» del Parlamento europeo. Persino la Corte costituzionale tedesca, due anni fa, ha dichiarato incostituzionale la clausola del 5% esistente per le europee in Germania, tema su cui recentemente sono tornati ad esempio Barbara Spinelli e Stefano Rodotà, proprio facendo riferimento anche alla situazione tedesca. Se per il Parlamento europeo la questione della «governabilità» è totalmente inesistente, e quindi la clausola di sbarramento andrebbe tolta o drasticamente ridotta (cosa che in effetti ha fatto il Bundestag tedesco, dopo la sentenza della propria Corte costituzionale), il problema invece esiste realmente per il Parlamento italiano, che dà e toglie la fiducia al Governo nazionale. Ma su questo altare non può, a mio parere, essere eccessivamente sacrificata la rappresentatività democratica e plurale, facendo rimanere privi di rappresentanza politica complessivamente diversi milioni di cittadini, che si aggiungono a quel 25% – destinato a crescere, purtroppo – che sceglie la strada dell’astensionismo, come forma di estraneità o di protesta silenziosa, rispetto all’attuale quadro politico. In questo modo perdono voce in Parlamento forze politiche, sia pur minori, che comunque esprimono valori ed esigenze reali della società civile. E lo stesso Parlamento perde in modo crescente non la sua legittimazione formale, ma quella sostanziale di espressione del pluralismo sociale, culturale e politico. Non sono – come ho già detto, anche per esperienza personale – un nostalgico del proporzionale puro. Ma sono convinto che sia un errore tanto la tentazione «bipartitica» (con due partiti che, sommati insieme, esprimono ormai meno della metà del Paese, ben lontani dalla Dc e dal Pci della Prima repubblica), quanto l’incapacità di concepire un «bipolarismo» aperto e plurale, a maggior ragione in una situazione attuale di sostanziale «tripolarismo». Del resto, anche la Dc di matrice degasperiana – pur ai tempi della sua amplissima consistenza elettorale – aveva sempre preferito governare insieme ad alleati «minori», che erano espressione di altre matrici sociali, ideologiche e culturali (all’epoca: liberali, repubblicani, socialdemocratici e socialisti). Nel Parlamento italiano, storicamente, hanno potuto esprimersi ed avere rappresentanza (nella maggioranza o nelle opposizioni) anche forze politiche minori, che hanno tuttavia contribuito a grandi cambiamenti sul terreno dei diritti civili, della questione ecologica, dei diritti sociali, creando un canale di collegamento tra le dinamiche sociali e culturali della società civile e le istituzioni rappresentative e di governo. Venendo meno questi canali, il distacco di molti cittadini dal sistema politico aumenta sempre più, la stessa conflittualità sociale non trova adeguati interlocutori istituzionali e rischia radicalizzazione estremiste, le nuove emergenze civili non trovano sufficienti punti di riferimento. E tutto questo provoca un vero «deficit democratico», cui nessun congegno di ingegneria elettorale è in grado di supplire, tramutando minoranze elettorali in maggioranze di governo, grazie al combinato disposto delle alte soglie di sbarramento e delle basse soglie premiali, per di più continuando ad espropriare i cittadini della propria possibilità di scelta, come la sentenza della Corte costituzionale ha rilevato e censurato. Anche la tanto auspicata, da taluni politologi, «dis-proporzionalità» ha un limite di ragionevolezza nella capacità di esprimere, senza soffocarla, la sovranità popolare. Altrimenti, l’Italia finirà per essere governata di fatto – grazie soltanto ai meccanismi al tempo stesso premiali e di esclusione forzata – da una minoranza ristretta rispetto alla grande maggioranza dei cittadini. Marco Boato
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